All’improvviso un déjà vu. Sono sulla prima salita della prima tappa del nostro viaggio verso Oslo. A Merano ci sono ottomila gradi percepiti, partiamo tardi, non sono più abituata a pedalare con le borse, mi sono allenata troppo poco. Questi pensieri si ripetono ossessivamente nella mia testa nei primi chilometri di salita della ciclovia della val Venosta. Non ti sei allenata. Non hai provato la bici. Siamo partite troppo tardi. Tutto mentre ci sorpassano come razzi signore anziane, pedalando agili con delle e-bike che sto già mentalmente presentando una petizione per renderle illegali.

Io mi sento come un televisore in bianco e nero mentre delle smart tv mi sbeffeggiano sfrecciando verso il futuro. Nessuno si preoccupa delle nostre bici da 27 chili da portare su coi nostri muscoli.

Noi siamo il passato anacronistico, perché sudare e fare fatica quando puoi andare su con leggiadria? Già. Ora è questa la domanda che riecheggia nella mia testa. Perché?

Intanto sono al terzo tornante e ho già finito la borraccia.

È in quel momento che incrocio in discesa un uomo, con la barba, la faccia simpatica e una bici muscolare da corsa. Vede i miei pensieri, o forse la mia faccia grondante, e mi fa un gesto. Con il pollice e l’indice. Manca tanto così. Manca poco dai, ci sei quasi, ce l’hai fatta.

Lo stesso gesto che nove anni fa, nel nostro primo viaggio in Patagonia, ci aveva fatto l’autista del pullman che avevamo incrociato mentre salivamo quella che sembrava un’interminabile salita controvento. Il passo del Diablo.

Manca poco. Ci siete quasi. Non arrendetevi.

Quanto era stato salvifico quel gesto, quanto ci aveva allargato il cuore, in quel momento di totale sconforto, vedere qualcuno che si preoccupava per noi.

Per un attimo penso che il caldo mi stia dando al cervello. Che se adesso partono anche i déjà vu forse sto per avere un colpo di calore o sono finita dentro Matrix. Pillola rossa continui a salire coi tuoi muscoli, pillola blu la tua bici si trasforma in una e-bike, fine della fatica.

Ma intanto che decido quale pillola scegliere i tornanti sono finiti e inizia la parte più pianeggiante della giornata. Mi fermo a scrivere sul mio quadernetto: signore con la barba mi incoraggia come in Patagonia.

Sicura che dal giorno dopo avrei cominciato a scrivere, comincio ad appuntare ogni cosa che vedo, ogni stranezza, ogni particolare.

Invece ci sono volute due settimane e una giornata libera a Lipsia prima che avessi la mente sgombra e l’energia per prendere l’iPad e decidere di spulciare tra gli appunti scritti al volo nelle brevi pause lungo la strada.

Ci sono volute due settimane per lasciare spazio alle parole appuntate sul piccolo quaderno, il corpo reclamava tutta la mia attenzione.

Avevo bisogno di sgomberare la mente, fare piazza pulita, lasciare una pausa di silenzio in cui ascoltare solo i muscoli e l’energia intrappolata nel mio corpo. Un altro tipo di alfabeto, un linguaggio muto che ha preso voce e senso chilometro dopo chilometro.

Questa è la magia che può fare la bicicletta, me lo ero dimenticata, la fatica, il troppo, il non ce la farò mai, che vengono smentiti da una forza segreta, quasi cellulare, che lentamente emerge, pedalata dopo pedalata.

Ci sono voluti incredibilmente pochi giorni per adeguarsi al peso della bici e allenare le gambe.

Che regalo può fare il corpo, che anche se non è più giovane, può abituarsi alla fatica, resistere, spingere con decisione in salita, esultare nelle discese.

Qualcuno diceva che per essere coraggiosi bisogna allenare il corpo a essere forte.

Sono ripartita per un viaggio in bici pensando di non farcela e ancora una volta il viaggio mi insegna ad avere fiducia, a zittire le domande nella testa e lasciare comandare le memorie remote intrappolate nelle fibre dei muscoli. E poi con calma ritornare alle parole per poter raccontare tutto.

Come diceva un cartello lungo la strada Bitte nicht so schnell. Per piacere non così veloci.

Con calma torneranno le parole, mi sono detta. Con calma.